La 'questione' giovanile

Enrico Magni
Ci sono ragazz*, giovan* che immigrano da paesi complessi dove si rischia di morire per scariche di proiettili, oppure per fame/sete e camminano per lunghi periodi incontrando difficoltà enormi alla ricerca di un Eden immaginifico. Portano sulle spalle storie, tradizioni, esperienze lontane dai grattacieli di New York, Milano, Parigi e sono attratti da un miraggio di salvezza. Non sempre l’immagine scorsa sullo smartphone corrisponde alla realtà: molti muoiono, molti sono torturati, violentati, venduti, trapiantati, uccisi, traumatizzati.
Molti altri emigrano per trovare maggiori occasioni, occupazioni stando all’interno di un continente consolidato dal benessere commerciale, scientifico e tecnologico. Sono alla ricerca di un quid che permetta a loro di sviluppare, cogliere determinate occasioni.
La dimensione giovanile nel mondo è complessa, è espressione di luoghi, economie, culture, antropologie, politiche, psicologie, condizioni di vita di un tempo asimmetrico che globalizza l’immagine, la connessione che è altro dalla realtà reale: ciò che compare non è reale.
E’ un pezzo di civiltà che si muove, che cerca di camminare, che cerca identità, che cerca di confrontarsi con gli altri pezzi delle varie civiltà: la cosa è complessa. C’è sostanzialmente un processo centripeto insito nella realtà che tende a inibire, contenere, sottrarre l’energia vitale bioesistenziale per sottoporla a controllo. Basta percorrere con la memoria quello che è accaduto in questi vent’anni nelle varie parti del globo per costatare come questa energia bioesistenziale è stata manipolata, bloccata, inibita per questioni politiche locali, economiche e guerre.
Non esiste un* giovan* classificabile dentro una categoria nosografica definibile come si tende a fare per comodità in psicologia, sociologia, psichiatria. Non è nemmeno pensabile che il prodotto economico giovane sia globalizzabile e collocabile in un’ottica esclusivamente occidentale: non esiste solo l’occidente.
Tutto questo serve per giungere a considerare, evidenziare dei fenomeni ricorrenti che si stanno verificando. Di queste problematiche se ne parla soltanto quando compaiono dei disagi; tutto è delegato nel privato delle quattro mura, nei pochi ambulatori, studi specializzati per queste problematiche; tutto è triturato dalla rimozione sociale: eppure la questione è complicata.
La violenza spontanea, micro e macro (non è bullismo), che si sta manifestando, non va banalizzata con atteggiamenti giustificatori da parte degli adulti o solo messa in sicurezza; è un segno forte di disagio del singolo e dei gruppi; è un disturbo generalizzato che usa la lotta fisica per asserire lo stato di sopravvivenza; è un modo primordiale biopsichico per affermarsi. La lotta, la forza sostituiscono la parola. L’altro è sempre un potenziale nemico, può essere l’amico, il vicino di banco, l’insegnate, il medico, l’adulto. Sono saltati i ruoli sociali, parentali. C’è sempre un nemico da combattere ed è quello che non comprende le mie ragioni, qualunque esse siano.
I giovani non sono mai fragili. La fragilità è una nozione giustificante del pensiero dominante: è comoda. Il giovane va incluso immediatamente nel processo sociale e decisionale, non va assecondato infantilizzato, marginalizzato: “Non vogliamo fare i due scritti per l’esame finale perché siamo stati costretti a non studiare a causa della Dad, del covid”.
E’ una banalizzazione, una giustificazione, una razionalizzazione. In un’altra parte ci sono giovan*, della stessa età, che danno esami sotto le bombe, mentre combattono o fuggono dalla fame. Sono altre le ragioni più sostanziose per chiedere una prova finale più all’altezza della situazione che escluda i due scritti.
Il covid, dentro tutta questa questione, c’entra in parte, le problematiche psicosociali sono secondarie e vanno oltre. Certo, determinate condizioni possono sollecitare delle reazioni già latenti. Gli effetti  del  covid incidono prevalentemente sullo sviluppo infantile.
dr. Enrico Magni, psicologo
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