Questa piccola Pasqua fuori stagione

Stefano Motta
C’è stato un periodo in cui ammiravo il coraggio ostinato e fiero di santo Stefano. Era la stagione delle grandi convinzioni ideologiche, del titanismo prometeico di chi si sentiva investito di una qualche epica missione. Con gli anni ho imparato che la pazienza è più saggia della foga, e che la testimonianza migliore non sempre passa attraverso la lotta. E che, se hai la forza di aspettare (e se hai ragione, naturalmente), i tuoi avversari incappano in figure di merda talmente grandi che ridere di loro ti pare persino poco compassionevole.

Perciò adesso, con un po’ di vita alle spalle, qualche pietra presa, qualcuna persino cercata, qualcun'altra schivata, qualche sconfitta, qualche successo, non lo so se me la sento di additare come efficace la condotta del diacono Stefano.
Primo martire, primo giorno dopo il Natale, primo martire non per mano di quei cattivoni dei persecutori romani ma ucciso dai fratelli maggiori nella fede, gli ebrei.

Per Gesù e per gli altri martiri abbiamo uno strumento di tortura e di morte destinato ad avere successo simbolico: una croce (a testa in giù per san Pietro, a X per sant’Andrea e per i passaggi a livello), una ruota per santa Caterina, una graticola per san Lorenzo, la colonna di san Sebastiano…
Qualcun’altra ha avuto successo iconografico per la modalità del martirio: ricordo risate imbarazzate da bambino quando dagli affreschi di qualche chiesa si affacciava santa Lucia con gli occhi sul vassoio o, peggio, sant’Agata con le minne (che, tra l’altro, sono un dolce buonissimo!).

Santo Stefano, al massimo, viene rappresentato da Giotto con due bernoccoli che possono essere le corna della santità come il Mosè di Michelangelo o due sassi volteggianti là dove poi ci sarebbe stata l’aureola.
Perché è vero che Stefano fu praticamente linciato in una sassaiola. Ma è altrettanto pur vero che le risposte del giovane di fronte al sinedrio furono di quelle che ti tirano i sassi fuori dalle mani, diciamolo. La letteratura è piena di uomini coraggiosi cui il fervore della fede fa da velo all’astuzia comunicativa: fra Cristoforo nei “Promessi sposi” è degno emulo di questo primo martire.

Il suo comportamento e l'esito che ne derivò furono storicamente inevitabili, nel clima di tensioni politico-religiose della Palestina post Ponzio Pilato, ma farei ugualmente al ragazzo un paio di lezioni sulla comunicazione assertiva, e sulla gestione dei conflitti: gli servirebbero per non passare alla storia come martire, ma non è detto che gli impedirebbero di diventare santo.

“Santostefano” è per un sacco di gente la giornata degli avanzi. La coda del Natale, il completamento necessario, il rilassamento inevitabile dopo la lunga corsa per la festa, una specie di anticlimax sonnolento e rilassato. Dopo il 25 un anno ormai tramonta: i giorni in mezzo sono gli ultimi passi trascinati verso la fine, e il nuovo inizio.

Ma per chi crede, la festività di Santo Stefano non è la fine del Natale, ma il fine. Lo scopo di quella nascita è la testimonianza, la conclusione di un banchetto non è l’esaurimento degli avanzi, il fine di una festa dovrebbe essere la sua prosecuzione, non la sua consumazione. Questa piccola Pasqua fuori stagione, questo linciaggio dopo una nascita, è più un avvertimento che un insegnamento: felice il mondo che avrà il coraggio di fare festa, e non avrà bisogno di eroi e di martiri.

Quando gli amici mi fanno gli auguri di buon onomastico spero e so che desiderano per me questo. Non avanzi, e nemmeno pietre: non una fine ma un fine, uno scopo, un senso in più.

P.S.: Su Casateonline ormai è un po' una tradizione. Ho già parlato di santo Stefano QUI e QUI.
Stefano Motta
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