LA DOMENICA DELLE SALME
Una leggenda di quartiere vuole che i miei vicini di casa (a distanza di sicurezza di una cinquantina di metri tra un’abitazione e l’altra, naturalmente) siano informati di quando sono alla scrivania a lavorare a un nuovo romanzo poiché sono scrittore rumoroso e scrivo con lo stereo, come si dice, “appalla”. È un mio difetto, e di tutti non il peggiore. In questi giorni di accasamento forzato e di ispirazione latente mi fa compagnia De Andrè. Che il periodo dei Clash si è concluso con le bozze di un romanzo per ottobre licenziate alla casa editrice. E Pasqua ha sempre come colonna sonora la voce pastosa e malinconica di Faber. Di solito si fa sentire tra il Venerdì Santo, col “Testamento di Tito”, un capolavoro di rabbia, denuncia e poesia, ma quest’anno che tutti i giorni sono uguali a quello di prima e a quello che verrà, il periodo-Faber è iniziato oggi, con “La domenica delle salme”.
Non è tanto il calembour dello scambio di consonante [P]alme-[s]alme e la corrispondenza del calendario liturgico a farmela tornare in mente oggi. Che poteva intitolarsi anche diversamente, e credo che sarebbe stata ugualmente calzante. Chi non la conosce (CHI non la conosce?!?!) la può trovare facilmente su youtube, se le settimane di smartworking, homeschooling, whatsapping, netflixing, INPSing, pornhubbing (de gustibus non est disputandum) non hanno esaurito i giga di navigazione.
Vi troverà un videoclip per la regia di Gabriele Salvatores, una roba non per tutti.Scritta nel ’90, dopo la caduta del Muro di Berlino, “La domenica delle salme” è canzone amara, di protesta contro l’appiattimento del nuovo pensiero unico del Quarto Reich allora capitalista, oggi virologista, sempre qualunquista. Ascolto la chitarra rincorrere la voce graffiante di Faber che canta di una “domenica delle salme / [che] si portò via tutti i pensieri / e le regine del ‘'tua culpa'' / affollarono i parrucchieri” e penso alle cacciatrici smartphonicamente armate che ritraggono i runner, i passeggiatori di cani e bambini, i viandanti a lor dire immotivati. E di nuovo Faber, col “ministro dei temporali / [che] in un tripudio di tromboni / auspicava democrazia / con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni” e mi pare di cogliere nell’incessante e quotidiano aggiornamento statistico sui numeri del contagio una fiducia scaramantica verso il raggiungimento di un fantomatico picco, oltre il quale ci sarebbe la discesa: peccato che il picco non è un traguardo, sono persone morte, salme, e mi pare che siano in molti ormai ad affidarsi a riti apotropaici come quello del ministro di cui sopra, o di quell’altro che chiede di riaprire le chiese a Pasqua, o di quello che invita a mettersi una bella sciarpina, se non c’è la mascherina? Nel dubbio, vuoi vedere che una mascherina qua, una toccatina là, ce la sfanghiamo?
“La domenica delle salme / fu una domenica come tante / il giorno dopo c'erano i segni / di una pace terrificante” canta Faber, e questa pace ulivistica e colombica tanto attesa e desiderata, quiete dopo la tempesta del Diluvio universale, è oggi il pane quotidiano delle nostre strade silenziose e vuote, e sta diventando una tortura, in una domenica “come tante”.
E nel grande parco di fronte a casa mia sono tornate le leprottine, e un riccio ha impiegato un quarto d’ora ad attraversare la strada senza che nessun’automobile lo schiacciasse e adesso lo vedo che cerca di infilare il muso sotto il mio cancello per entrare nel mio giardino. E la Natura si riprende il suo mondo, in attesa di una colomba che ci porti un ramo di ulivo e ci dica che possiamo rimettere piede a terra dalle nostre arche.
Stefano Motta