La letteratura non è corretta, non è accomodante, non è inclusiva

Era il gennaio di due anni fa quando la piattaforma Disney+ annunciava che avrebbe anteposto alla visione di "Dumbo", di "Peter Pan" degli "Aristogatti" e di tutti quei capolavori un avviso per avvertire che in essi avrebbero potuto esserci dei contenuti offensivi.
Per chi non dovesse ricordarsi, si trattava per esempio del fatto che in "Dumbo" ci sarebbe una canzone offensiva contro gli schiavi afroamericani; che Peter Pan ha osato definire "pellirosse" i componenti della tribù di Giglio Tigrato; e che il gatto siamese Shun Gon, pianista in "Tutti quanti voglion fare jazz" ha i denti sporgenti e gli occhi a mandorla, canta in un inglese abborracciato e suona il piano con le bacchette! [ne parlavo qui: 


A distanza di due anni la Puffin, il ramo di un altro colosso dei media mondiali, la Penguin Books, annuncia che, d'accordo con gli eredi di Roald Dahl, ha deciso di riscrivere alcuni suoi classici, cambiando quei passaggi o quei termini come "grasso", "piccolo", "nano", ritenuti "non inclusivi" o offensivi delle "nuove sensibilità".
Il signor Gloop sarà semplicemente "enorme", ma non "enormemente grasso", gli Umpa-Lumpa non saranno più "piccoli uomini" ma "piccole persone" (se possibile è ancora peggio!), Miss Trunchbull di "Matilda" non è più una "femmina formidabile", ma una "donna formidabile".
Suggerisco di non far scorreggiare la regina nel "GGG", allora. E di girare di nuovo 007 - Si vive solo due volte (la sceneggiatura è di Dahl, se non lo si sa), evitando il monocolo di Blofeld (che è discriminante nei confronti di mutilati e invalidi), e senza truccare Sean Connery con gli occhi a mandorla (che non è inclusivo nei confronti dei fratelli orientali).

Come autore, mi è effettivamente capitato che qualche casa editrice suggerisse correzioni ai miei manoscritti, emendasse qualche errore, chiedesse di cassare qualche espressione ritenuta infelice, o qualche passaggio che avrebbe potuto non incontrare il favore del pubblico di elezione o la policy dell'editore: ci sta. Se non ti sta bene e vuoi preservare la purezza del tuo stile virulento, cambia editore, nel caso.
Ricordo, per esempio, un "cazzo" cancellato da Einaudi Ragazzi in un mio romanzo: se ne parla con l'autore, se ne discute in sede di editing, e poi si decide.
Poi però un libro esce, ed è figlio del suo tempo. Farà la sua strada, troverà i suoi lettori, magari non quelli che inizialmente stava cercando, verrà capito o frainteso, ma rimarrà, tal quale. Ci sono stati autori che per una vita intera hanno limato le proprie opere: del "Canzoniere" di Petrarca abbiamo almeno nove redazioni, tre edizioni dell'"Orlando furioso" di Ariosto (che è morto prima di terminare la quarta revisione), due edizioni dei "Promessi sposi", due edizioni del "Nome della rosa", ma sempre a cura degli autori stessi. Non dei loro eredi o, peggio, in base alla mutata sensibilità del pubblico.
Ricordo altri passaggi, in quel mio romanzo come in altri miei testi, sdoganati senza problemi dagli editor e dagli editori. Perché la letteratura è arte, non politica. La letteratura deve far ridere, far piangere, far arrabbiare, deve disturbare, dare fastidio, provocare: per questo fa riflettere.
Gli scrittori usano parole appuntite, per ferire o per guarire. Gli scrittori chiamano le cose col loro nome perché non hanno paura di dire quello che vedono, e purtroppo per loro vedono molto. Più lontano e più nel profondo, e non sempre ciò che vedono è solo luce.
Gli scrittori non sono inclusivi: sono pungenti. Se non vi piacciono i loro libri non comprateli e non leggeteli. Ma non arrotondatene la penna per farle dire qualcosa che vi disturbi di meno. Gli scrittori non inseguono le sensibilità del momento (quello lo fanno gli autori di bestseller preconfezionati): le creano, le sensibilità.
Sono ancora convinto che quel "cazzo" in quella mia frase ci stesse bene, ma quel mio romanzo ha avuto e ha ancora un enorme successo, e dunque ha avuto ragione l'editore.
Ma alla fine l'ho tolto io. Non i miei eredi. Ed è un po' diverso dal povero Roald Dahl.
Stefano Motta
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