Guardando dalla finestra
Dalla finestra, quello che accade in strada appare sempre con distacco. Si ha la sensazione di essere in un quadro di Hopper come nella Casa di Notte (1942). La sensazione è quella di trovarsi in una stanza vuota, illuminata dalla lampada; la finestra divide il dentro dal fuori, mostrando la solitudine e la separazione.
È la sensazione che si prova nel mettere insieme una serie di fotogrammi che compongono il grande e il piccolo schermo di casa. I contrasti sono forti, contrastanti, difficili da comparare, eppure sono lì che sobbalzano sulla tavola, sollecitano domande, risposte impossibili: sono così perturbanti che il cervello fatica a distinguere i colori, discriminare le sfumature.
Non ci sono risposte semplici a questioni complesse e sconosciute. La somma delle parti non compone mai l’intero; il neutrino che oscilla cambia posizione riguardo all’osservatore.
Giobbe, dopo essere stato svestito da tutti i suoi possedimenti e affetti, diventa un clochard ed è costretto a mendicare nelle strade di New York. Giobbe, piuttosto di rinnegare la sua fede, lancia un grido di dolore - come l’Urlo (Munch) - per rompere la messa alla prova imposta dall’intrigo tra dio e satana. Giobbe accetta tutte le costrizioni, i supplizi, la fame; così, allo stesso modo, il popolo di Palestina sopporta la vendetta malefica e mortifera di un intrigo composto di forze opposte simmetriche che si attraggono.
Invece, l’Hikikomori, per difendersi e proteggersi dalla realtà che sta fuori dalla finestra, si nasconde tra le sue mura di casa dietro il piccolo schermo, coltivando un silenzio tombale, si autoesclude: si rifiuta di guardare fuori dalla finestra. Il suo grido è inascoltato, in fondo non dà molto fastidio.
Infastidisce l’urlo del migrante che chiede asilo, ospitalità, accoglienza. Per questo è trattato come invasore, pericolo, intruso. É uno di troppo, un barbaro, uno che ruba il pane ai già poveri; va isolato, limitato dentro un confine.
Poi, sul grande schermo, si concretizza l’urlo della morte del Papa (Francis Bacon, 1953), in contrasto con la scena hollywoodiana post-rinascimentale del rosso cardinalizio, del nero dei governanti e il policromo delle persone che attendono di salutare e accompagnare la salma composta nella semplice bara.
Tutto ciò cozza con il rito silenzioso, taciturno delle ceneri gettate nel lago, oppure del commiato pubblico tra una lettura di poesia, un suono e una parola, o tra le volte della piccola chiesa.
Al silenzioso ritiro, composto di piccoli gruppi amicali e familiari, la scenografia romana appare scissa dalla realtà. Va anche detto che, anche nella morte, c’è disuguaglianza.
Lo sfarzo, l’onnipotenza infastidiscono, disgustano. Inoltre, costatare che il megalomane del grande schermo metta in scena una carnevalata, facendo girare immaginette dissacranti nei confronti del defunto, sollecita disdegno.
Questa epoca storica, definibile globale o post globale, evidenzia come il pensiero primitivo magico del selvaggio si coniuga con quello l’ipertecnologico cibernetico: il pagano si mischia con il sacro, l’autoritarismo con il liberalismo. I potenti laici si sentono degli illuminati, degli eletti da un supremo, si vivono come immortali. In questa mondo cyber, costituito da avatar, il pericolo è che questi simulacri si convincano davvero di essere dei chiamati.
È la sensazione che si prova nel mettere insieme una serie di fotogrammi che compongono il grande e il piccolo schermo di casa. I contrasti sono forti, contrastanti, difficili da comparare, eppure sono lì che sobbalzano sulla tavola, sollecitano domande, risposte impossibili: sono così perturbanti che il cervello fatica a distinguere i colori, discriminare le sfumature.
Non ci sono risposte semplici a questioni complesse e sconosciute. La somma delle parti non compone mai l’intero; il neutrino che oscilla cambia posizione riguardo all’osservatore.
Giobbe, dopo essere stato svestito da tutti i suoi possedimenti e affetti, diventa un clochard ed è costretto a mendicare nelle strade di New York. Giobbe, piuttosto di rinnegare la sua fede, lancia un grido di dolore - come l’Urlo (Munch) - per rompere la messa alla prova imposta dall’intrigo tra dio e satana. Giobbe accetta tutte le costrizioni, i supplizi, la fame; così, allo stesso modo, il popolo di Palestina sopporta la vendetta malefica e mortifera di un intrigo composto di forze opposte simmetriche che si attraggono.
Invece, l’Hikikomori, per difendersi e proteggersi dalla realtà che sta fuori dalla finestra, si nasconde tra le sue mura di casa dietro il piccolo schermo, coltivando un silenzio tombale, si autoesclude: si rifiuta di guardare fuori dalla finestra. Il suo grido è inascoltato, in fondo non dà molto fastidio.
Infastidisce l’urlo del migrante che chiede asilo, ospitalità, accoglienza. Per questo è trattato come invasore, pericolo, intruso. É uno di troppo, un barbaro, uno che ruba il pane ai già poveri; va isolato, limitato dentro un confine.
Poi, sul grande schermo, si concretizza l’urlo della morte del Papa (Francis Bacon, 1953), in contrasto con la scena hollywoodiana post-rinascimentale del rosso cardinalizio, del nero dei governanti e il policromo delle persone che attendono di salutare e accompagnare la salma composta nella semplice bara.
Tutto ciò cozza con il rito silenzioso, taciturno delle ceneri gettate nel lago, oppure del commiato pubblico tra una lettura di poesia, un suono e una parola, o tra le volte della piccola chiesa.
Al silenzioso ritiro, composto di piccoli gruppi amicali e familiari, la scenografia romana appare scissa dalla realtà. Va anche detto che, anche nella morte, c’è disuguaglianza.
Lo sfarzo, l’onnipotenza infastidiscono, disgustano. Inoltre, costatare che il megalomane del grande schermo metta in scena una carnevalata, facendo girare immaginette dissacranti nei confronti del defunto, sollecita disdegno.
Questa epoca storica, definibile globale o post globale, evidenzia come il pensiero primitivo magico del selvaggio si coniuga con quello l’ipertecnologico cibernetico: il pagano si mischia con il sacro, l’autoritarismo con il liberalismo. I potenti laici si sentono degli illuminati, degli eletti da un supremo, si vivono come immortali. In questa mondo cyber, costituito da avatar, il pericolo è che questi simulacri si convincano davvero di essere dei chiamati.
Dr.Enrico Magni, Psicologo, giornalista