Missaglia: testimonianza di Giuseppe Scaccabarozzi. "Era un lavoro pesante ma che creava solidi legami"
Ha lavorato nelle miniere montevecchine dal 1947 al 1958, ossia fino alla frana della Cappona, per poi essere trasferito alla cementeria di Lomaniga, dove è rimasto fino al 1961. Stiamo parlando di Giuseppe Scaccabarozzi, 81 anni di Missagliola, nonchà© uno dei pochi, se non l'unico, testimone rimasto della vita all'interno delle cave di Montevecchia. Dopo i primi anni lavorativi trascorsi presso la ditta Tavolazzi di Missagliola, Giuseppe decise di cambiare, accettando il consiglio di un amico che lavorava presso le miniere della Cappona di Montevecchia. Erano gli anni del secondo conflitto mondiale, il lavoro scarseggiava e l'uomo, già sposato e padre di tre figli, decise di accettare quella possibilità . Il racconto che ascoltiamo è davvero lontano anni luce dai nostri giorni, caratterizzati dall'avvento dell'era digitale, del terziario avanzato e di internet. Giuseppe ci apre un mondo lontano dal nostro, ma proprio per questo motivo affascinante e ricco di mistero. “Nella miniera della Cappona lavoravamo circa in 30 - ci ha spiegato - mentre i dipendenti totali, contando le altre cave e la cementeria, superavano il centinaio. Il mio lavoro nella cava, come quello dei miei compagni, consisteva nell'estrarre i blocchi di marna. Generalmente prima di andare a casa dopo aver finito il turno, facevamo dei buchi nelle rocce, inserivamo le mine e le facevamo brillare, così la mattina seguente, quando cominciavamo a lavorare, metà dell'opera era già stata fatta. A quel punto caricavamo i sassi sui vagoncini e li trasferivamo alla teleferica che li trasportava alla cementeria di Lomaniga'. Il lavoro era piuttosto pesante, ma secondo la testimonianza di Giuseppe, il solido legame creatosi tra i dipendenti rendeva tutto meno faticoso. Il clima era ideale perchà© in estate era fresco ed in inverno si stava bene; unico inconveniente era l'acqua che filtrava da un livello all'altro in altezza e spesso costringeva i lavoratori a bagnarsi mentre erano al lavoro in profondità . La miniera della Cappona si sviluppava infatti in altezza su ben 6 livelli, collegati tra loro da un ascensore, mentre per spostarsi in lunghezza nelle gallerie, i minatori utilizzavano dei vagoni che viaggiavano su rotaia. “Ogni giorno caricavamo ognuno dei circa 40 vagoni con 50 quintali di sasso- ha continuato Giuseppe - che poi trasferivamo a Lomaniga. La mattina si iniziava a lavorare alle 8 e si proseguiva fino alle 16, mentre se si doveva scavare un livello di galleria, quello lo si faceva di notte e si impiegavano circa 6 mesi'.
Un'immagine della cementeria dismessa
Quella frana del San Bernardo Giuseppe se la ricorda bene anche perchà©, come ci ha spiegato, tutti i lavoratori sentivano che prima o poi sarebbe accaduto. Pochi mesi prima del crollo definitivo, quello che sancì la chiusura della miniera, c'era già stato un parziale cedimento, sistemato con mezzi di fortuna. Così, dopo la tragedia naturale, il missagliese fu trasferito alla cementeria di Lomaniga, dove per quattro anni svolse diverse mansioni. “Al fabbricone lavoravamo su tre turni, anche di notte, perchà© i mulini e i forni che usavamo per frantumare la marna dovevano rimanere sempre accesi. La struttura era molto grande e disposta su tre piani, in ognuno dei quali si svolgevano attività differenti, dalla cottura alla macinazione, sino alla spedizione'.

Un'immagine della frana del 1958
Gli operai pranzavano e cenavano durante il loro turno presso una mensa gestita da altri lavoratori, mentre all'ultimo piano c'era uno spaccio, dove si vendeva grappa, vino e cioccolato. I lavoratori erano tutti uomini e per la maggior parte minatori ed operai, mentre nella zona portineria c'erano gli uffici, dove si potevano trovare il segretario ed il direttore. Con la chiusura graduale delle cave però, il lavoro della cementeria iniziò a calare e Giuseppe decise di dare maggiori garanzie alla sua vita, andando a lavorare al mercato della frutta di Milano insieme ai suoi fratelli. “Non volevo andarmene da Lomaniga - ci ha spiegato - ma dovevo pensare alla mia famiglia ed in più il lavoro in cementeria non funzionava. Negli ultimi tempi era stato acquistato un altoforno che avrebbe dovuto ospitare 1000 quintali di roccia, invece ne conteneva solo 300. Ormai non valeva più la pena continuare'.