Sirtori: nella ''lotta contro l'oblio'' il racconto di Sultana Razon, moglie dell'oncologo Veronesi e testimone della deportazione

"Nel '39 mi sono accorta che mia mamma continuava a piangere e che erano comparsi due bauli in corridoio - vivevamo in un piccolo appartamento nella zona di Parco Sempione a Milano - e tutte le nostre cose, giorno per giorno, venivano riversate lì dentro. All'epoca avevo sette anni e io chiedevo continuamente ai miei genitori "dove andiamo?". Mio papà si decise a rispondermi dopo molto tempo; mi disse che forse andavamo in America. Ora, naturalmente, so che non era affatto così".

Sultana Razon con Pucci Paleari

Questo è stato l'incipit del suo racconto. Racconto che, per la straordinaria lucidità con cui è stato condotto, ha tenuto letteralmente inchiodato alle sedie il centinaio di persone venute e gremire, nel pomeriggio di domenica 2 febbraio, una sala di Villa Patrizia a Sirtori, gentilmente concessa dai proprietari per ospitare il penultimo appuntamento di "Percorsi nella memoria", una carrellata di iniziative culturali promosse dal Consorzio Brianteo Villa Greppi per perpetrare il ricordo della Shoah e l'importanza della testimonianza, conclusosi poi nella serata di domenica.
Sultana Razon è conosciuta a livello internazione per essere medico, nonché moglie di un altrettanto celebre oncologo quale Umberto Veronesi, ma è anche una testimone vivente e consapevole di una pagina nera della storia mondiale.


All'inizio dell'incontro le viene chiesto subito di fissare i punti salienti del suo racconto, quello che va dal 1941 al 1945 e che culmina purtroppo nella deportazione in Germania nel lager di Bergen Belsen. Le tappe sono: Milano, il campo fascista di internamento Ferramonti di Tarsia (istituito nel giugno del '40 e dismesso due anni dopo, vi venivano destinati gli ebrei e gli stranieri, o meglio gli "apolidi" come li ha puntualizzato Sultana), Taglio di Po, dove avvenne il confino, ed infine Fossoli e Bergen Belsen dove si consumò la deportazione.
"I miei genitori, ebrei turchi, si erano spostati dalla Turchia perché mio padre non voleva fare il servizio militare lì, ma aveva mantenuto il passaporto".

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Scene quotidiane precedono ed incanalano verso il racconto dell'orrore: "ricordo che mia madre mi prese per mano insieme a mia sorelle. Ci recammo in Piazza del Duomo e lì butto in un grande contenitore la sua vera d'oro". Questa era la scena del cosiddetto "Oro alla Patria", manifestazione tenutasi nel '35 in tutto lo Stivale e fortemente voluta dal regime fascista. Saltiamo al gennaio'41, quando un giorno il papà di Sultana non torna più a casa ed inizia la ricerca disperata dell'uomo negli ospedali e tramite la Polizia. "Non sapevamo a chi rivolgerci, eravamo disperati. Nel frattempo eravamo diventati poverissimi".


Quello che ha disarmato nel racconto della donna è stato il contrasto tra l'esigenza primaria, cioè l'unità famigliare, sempre ricercata, persa poi ritrovata e poi persa nuovamente, e le vicende sullo sfondo storico, che passavano quasi in secondo piano rispetto al bisogno di riunire la famiglia. Emblematico a questo riguardo è questo ricordo che Sultana ha voluto condividere: "il giorno del compleanno, mamma prende me, (Susy, così si faceva chiamare Sultana, ndr) e mia sorella, più piccola di tre anni, e ci porta in treno. Andiamo in Meridione grazie ai soldi che mia madre era riuscita a farsi prestare da sua sorella, mia zia. Io e mia sorella pensavamo di andar via per un weekend, di andare a trovare papà".


Le tre donne varcano invece il confine del campo di Ferramonti, a Tarsia, in provincia di Cosenza, uno dei principali luoghi in cui sono stati internati ebrei, apolidi, stranieri, nemici del fascismo e a cui avrebbero aperto le porte solo gli inglesi nel '43.
"Le guardie rimasero allibite nel vederci entrare volontariamente, ma la gioia di rincontrare papà per noi era tale! Dentro poi, ricordo che ognuno di noi si improvvisava con qualche professione. Ciò che sapeva fare, lo metteva alla mercé di tutti".
Lì la famiglia rimane alcuni mesi ma nel frattempo si insinua la malaria e freddo e fame fanno i primi morti; "noi non ce ne accorgemmo più di tanto, avevamo i nostri tacchini, e facevamo cambio con gli altri" ha detto Sultana.


Prima della deportazione al campo nazista sassone, si inizia a respirare aria di tragedia: dal trasferimento nel "microscopico paesino in provincia di Rovigo", zona molto isolata ma tuttavia ancora piacevole - "eravamo comunque liberi, anche se eravamo tenuti a firmare ogni mattina" - sino al Lager, passando prima attraverso la data dell'armistizio nel settembre '43, quando il male si insinua tra la gente e getta le basi per lo sterminio perpetrato nel silenzio: "prima andavamo d'accordo con tutti i paesani, poi il dialogo si spezza. Erano gentili con noi, ma dopo l'armistizio - che io ricordo con questi canti e balli nelle aie: erano tutti felici perché pensavano la guerra fosse finita e così anche tutti i dolori, lo pensavamo anche noi - la gente iniziò a scantonarci, si giravamo dall'altra parte quando ci vedevano e comparvero le scritte sui muri. Fu spaventoso".


Poi la deportazione a Bergen Belsen, la sopravvivenza e gli anni passati in miseria dopo la guerra. La passione medica, coronata dal successo professionale con le difficoltà degli anni, l'incontro con il suo Umberto, la rinascita con i suoi sei figli, ancora il dolore con la malattia e le paure.
Di tutto è rimasto il coraggio, la memoria e la testimonianza, nel suo libro intitolato "Il cuore, se potesse pensare", e nel suo racconto di domenica pomeriggio. "Molti sopravvissuti ci mettono decenni prima di aprirsi e raccontare, alcuni non lo fanno mai. Io ho impiegato 45 anni" ha detto la donna, "ma il valore della memoria è tale da spingere a farlo". A 81 anni la sua è un'ulteriore lotta: quella contro l'oblio.
Selena Tagliabue
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