La caduta degli Dei: è finito un ciclo
Non è isolato il caso dell’ex ministro Michela Vittoria Brambilla, che come è dato sapere dalla stampa sarebbe indagata per il crack dell’azienda di famiglia. Il più recente è il Tubettificio Europeo: anche qui la stampa locale riporta che il presidente Manilio Giorgetti sarebbe indagato per un milione di euro che, secondo gli inquirenti, potrebbero non essere stati versati all’erario. Basta scorrere le cronache del Palazzo di Giustizia di Lecco per vedere quanti siano gli esempi di “imprenditori” su cui grava il sospetto di aver mandato a fondo le proprie aziende scaricandone poi i costi sui lavoratori e le loro famiglie. Al di là dei singoli casi, sui quali saranno gli inquirenti ad appurare la verità, a livello collettivo la questione da chiedersi è se sia la punta di un iceberg. Intanto osserviamo che per portare a galla certe situazioni c’è voluto l’intervento della magistratura. Il minimo che si possa dire è che i meccanismi del pluralismo politico e sociale, quando si tratta delle élite vere, funzionano fino ad un certo punto.
A noi però sembra che il problema sia più profondo e che non si possa confinare nell’angolo della cronaca giudiziaria. Diciamola tutta: è un intero ciclo di sviluppo e la classe dirigente che ne è stata interprete ad essere arrivati al capolinea. Un pezzo (quanto grande?) di borghesia industriale non è oggi in grado di affrontare la globalizzazione e ne scarica i costi sui lavoratori. Questa incapacità si mischia con le delocalizzazioni: il risultato è che stiamo perdendo pezzi interi di apparato industriale senza che da parte dei poteri, il cosiddetto “sistema Lecco”, ci sia una capacità di risposta all’altezza della sfida. Basta guardare il rosario di chiusure, fallimenti, delocalizzazioni: Konig, appunto Tubettificio Europeo, Leuci, Grattarola, Fonderia S.Martino, Stilepack, Trafilerie Brambilla, Onyx, Carsana, Bessel, Radaelli, solo per citare le più famose. Da anni è in calo il numero delle nuove imprese industriali. Allo stesso tempo, in questi otto anni di crisi, una élite di imprese esportatrici ha continuato a fare affari d’oro: il sistema si è polarizzato tra chi va molto bene e chi va a fondo. Occorrono politiche per quell’ampio bacino di filiere che stanno nel mezzo.
In questi anni, qual è stata la capacità di proposta strategica del “sistema Lecco”, ovvero di tutte quelle istituzioni locali, rappresentanze padronali e sindacali, tavoli di concertazione, che dovrebbe governare il territorio? Quali sono, ad esempio, le idee per affrontare il salto tecnologico all’industria digitale che cambierà letteralmente i connotati del manifatturiero, del lavoro e dell’impresa? Lecco rimane la provincia più manifatturiera d’Italia, ma fino a quando? E con quale manifattura? La discussione pubblica su questi temi, la capacità della borghesia locale e della politica di proporre e portare avanti scelte strategiche sta a zero. E i sindacati? I lavoratori sono la vittima sacrificale di questa ristrutturazione, eppure ad oggi la strada seguita è stata solo di ridurre il danno con gli ammortizzatori sociali, gestendo ogni vertenza in modo isolato. A ben vedere l’unica vera proposta strategica è stata quella della “città della luce”, portata avanti dai lavoratori della Leuci e da un pezzo di società civile.
A Lecco ci sono 500mila metri quadri di aree industriali dismesse che potrebbero diventare laboratori dell’innovazione se ci fosse una politica industriale degna di questo nome. Altre città lo hanno fatto: a Rovereto il Progetto Manifattura un grande polo della green economy su 70.000 metri quadrati, la citta dell’arte di Biella, gli ex Magazzini generali Falck a Sesto San Giovanni, diventati sede di un incubatore di moda e design sostenibile, a Milano l’ex Ansaldo acquistata dal comune e diventata Officine Creative Ansaldo. In tutti i casi con un ruolo progettuale forte del pubblico: esattamente ciò che oggi manca a Lecco. Perché si preferisce lasciare le aree nel pieno controllo di “lor signori” proprietari. Al contrario noi diciamo se la proprietà privata ha logiche di rendita parassitaria, è dovere del pubblico intervenire. La verità è che c’è un’intera classe dirigente che non ha più idee da proporre e vivacchia nella speranza che la ricchezza accumulata sia sufficiente a “passare la nottata”.
Noi invece proponiamo:
a) un’alleanza dei territori manifatturieri per cambiare le politiche nazionali. Se vogliamo salvare ciò che resta di un tessuto industriale fatto di piccole imprese, l’export non basta. Occorrono politiche di espansione dei consumi interni e quindi alti salari, lavoro stabile, welfare forte, credito pubblico per le PMI: il contrario di quanto si è fatto fino ad oggi;
b) Lecco deve costruire un progetto per sostenere la creazione in città, dentro un’area dismessa come la ex-Leuci, di laboratori territoriali per lo sviluppo di nuovi prodotti, magari legati all’intreccio tra digitale e manifatturiero che consentano ai sistemi di filiera di anticipare il cambiamento della domanda e dei mercati (sono anche finanziati da regione Lombardia);
c) i soldi dei bandi per l’innovazione devono essere dati solo a quelle imprese che accettano di impegnarsi a non delocalizzare;
d) Lecco dovrebbe chiedere che una parte delle risorse di politica industriale di regione Lombardia sia dedicata a sostenere progetti di lavoratori autorganizzati che vogliano rilevare una fabbrica che la proprietà intende chiudere sostenendone l’avvio. Forse non basterà: ma di certo è meglio che la palude attuale.
A noi però sembra che il problema sia più profondo e che non si possa confinare nell’angolo della cronaca giudiziaria. Diciamola tutta: è un intero ciclo di sviluppo e la classe dirigente che ne è stata interprete ad essere arrivati al capolinea. Un pezzo (quanto grande?) di borghesia industriale non è oggi in grado di affrontare la globalizzazione e ne scarica i costi sui lavoratori. Questa incapacità si mischia con le delocalizzazioni: il risultato è che stiamo perdendo pezzi interi di apparato industriale senza che da parte dei poteri, il cosiddetto “sistema Lecco”, ci sia una capacità di risposta all’altezza della sfida. Basta guardare il rosario di chiusure, fallimenti, delocalizzazioni: Konig, appunto Tubettificio Europeo, Leuci, Grattarola, Fonderia S.Martino, Stilepack, Trafilerie Brambilla, Onyx, Carsana, Bessel, Radaelli, solo per citare le più famose. Da anni è in calo il numero delle nuove imprese industriali. Allo stesso tempo, in questi otto anni di crisi, una élite di imprese esportatrici ha continuato a fare affari d’oro: il sistema si è polarizzato tra chi va molto bene e chi va a fondo. Occorrono politiche per quell’ampio bacino di filiere che stanno nel mezzo.
In questi anni, qual è stata la capacità di proposta strategica del “sistema Lecco”, ovvero di tutte quelle istituzioni locali, rappresentanze padronali e sindacali, tavoli di concertazione, che dovrebbe governare il territorio? Quali sono, ad esempio, le idee per affrontare il salto tecnologico all’industria digitale che cambierà letteralmente i connotati del manifatturiero, del lavoro e dell’impresa? Lecco rimane la provincia più manifatturiera d’Italia, ma fino a quando? E con quale manifattura? La discussione pubblica su questi temi, la capacità della borghesia locale e della politica di proporre e portare avanti scelte strategiche sta a zero. E i sindacati? I lavoratori sono la vittima sacrificale di questa ristrutturazione, eppure ad oggi la strada seguita è stata solo di ridurre il danno con gli ammortizzatori sociali, gestendo ogni vertenza in modo isolato. A ben vedere l’unica vera proposta strategica è stata quella della “città della luce”, portata avanti dai lavoratori della Leuci e da un pezzo di società civile.
A Lecco ci sono 500mila metri quadri di aree industriali dismesse che potrebbero diventare laboratori dell’innovazione se ci fosse una politica industriale degna di questo nome. Altre città lo hanno fatto: a Rovereto il Progetto Manifattura un grande polo della green economy su 70.000 metri quadrati, la citta dell’arte di Biella, gli ex Magazzini generali Falck a Sesto San Giovanni, diventati sede di un incubatore di moda e design sostenibile, a Milano l’ex Ansaldo acquistata dal comune e diventata Officine Creative Ansaldo. In tutti i casi con un ruolo progettuale forte del pubblico: esattamente ciò che oggi manca a Lecco. Perché si preferisce lasciare le aree nel pieno controllo di “lor signori” proprietari. Al contrario noi diciamo se la proprietà privata ha logiche di rendita parassitaria, è dovere del pubblico intervenire. La verità è che c’è un’intera classe dirigente che non ha più idee da proporre e vivacchia nella speranza che la ricchezza accumulata sia sufficiente a “passare la nottata”.
Noi invece proponiamo:
a) un’alleanza dei territori manifatturieri per cambiare le politiche nazionali. Se vogliamo salvare ciò che resta di un tessuto industriale fatto di piccole imprese, l’export non basta. Occorrono politiche di espansione dei consumi interni e quindi alti salari, lavoro stabile, welfare forte, credito pubblico per le PMI: il contrario di quanto si è fatto fino ad oggi;
b) Lecco deve costruire un progetto per sostenere la creazione in città, dentro un’area dismessa come la ex-Leuci, di laboratori territoriali per lo sviluppo di nuovi prodotti, magari legati all’intreccio tra digitale e manifatturiero che consentano ai sistemi di filiera di anticipare il cambiamento della domanda e dei mercati (sono anche finanziati da regione Lombardia);
c) i soldi dei bandi per l’innovazione devono essere dati solo a quelle imprese che accettano di impegnarsi a non delocalizzare;
d) Lecco dovrebbe chiedere che una parte delle risorse di politica industriale di regione Lombardia sia dedicata a sostenere progetti di lavoratori autorganizzati che vogliano rilevare una fabbrica che la proprietà intende chiudere sostenendone l’avvio. Forse non basterà: ma di certo è meglio che la palude attuale.
Federazione PRC Lecco